domenica 4 ottobre 2009

Ricordando, Messina.


Vi ricordate da bambini, sui banchi di scuola?
L’ora di storia – per molti la più bella – dove scoprivamo le civiltà, che dall’alba dei tempi nascevano, crescevano, prosperavano lungo il corso dei grandi fiumi. Ricordate? Il lento fluire dell’Egitto attraverso i secoli, al ritmo placido e costante del suo fiume. Le esondazioni, il limo, il papiro che tornava a crescere, per vedersi affidato poi il misterioso messaggio che gli scribi affidavano al futuro, visto come un armonico incedere, scandito dal fiume-dio, simbolo della natura stessa.
E’ difficile ricordarlo, quando scopriamo che, nell’Occidente della tecnica, della lunga marcia della scienza, si può morire d’acqua. E’ più “pacifico”, quando si parla di periferie lontane, di onde anomale, di movimenti delle placche oceaniche. Un po’ meno, quando è solo la pioggia, che lava via l’omertà di chi ha cementificato un intero paese, dai promontori liguri alla valle dei Templi di Agrigento, passando per l’agro e il litorale romano, la costa domizia, le mille vene aperte di questo paese.
Ricordate? L’ora di geografia, dove tra sbadigli e rimproveri, ci impartivano nozioni sulle zone climatiche... Dove quando si parlava di “climi temperati, precipitazioni moderate, raccolte perlopiù nei mesi invernali”, la frase si chiudeva con un immancabile, “come qui, in Italia!”.
Eppure da anni abbiamo un’altra storia, un’altra geografia: stagioni stravolte da fenomeni atmosferici imprevedibili – quest’anno, a Cortina la neve è caduta il 15 di Settembre.
Ricordate gli autunni di Roma? Scarse pioggerelline settembrine, nuvole sparse su un cielo materno e protettivo, rosso dell’amore che lascia nel cuore di chiunque abbia cuore di avvicinarla. Gli autunni delle gite fuori porta, delle corse: chi in bicicletta, chi in motorino; chi sopra, chi sotto i muraglioni del Tevere.
Ricordate l’autunno scorso, ricordate il Tevere? Il “biondo” familiare, convertito in piena, in furia che in altre epoche avrebbe giustificato sacrifici a Giove Pluvio, o al Fiume stesso…ad un passo dall’irridere quel maestoso scempio al suo ruolo in città, quell’argine asettico che fa dimenticare a molti che è lì che nasce la città, è lì che torna, rifiuto, da qualche cloaca.

La vita di un uomo - vi dirà qualche studioso (senza tutti i torti) - non può misurare un cambiamento climatico, perché infinitesima, rispetto a quella della Terra. Del resto, dietro molte “soluzioni” proposte al problema, si nasconde quello stesso approccio, tecnocratico, “progressista” e antropocentrico, che ne è la causa prima, nonchè una certa predisposizione a trasformare l’argomento in materia d’affari – si pensi al bioetanolo, o a chi propone una “borsa delle emissioni”, applicando un modello speculativo già naufragato.

Eppure, non è abbastanza, per risvegliare una coscienza ecologista matura?
Ricordate, qualche anno più tardi, su quegli stessi banchi, Leopardi? L’armonia con la natura alla base della gioia degli Antichi; la perdita di questa illusione alla base della moderna infelicità? Come analizza Franco Cassano, via da un impossibile “ritorno al passato”, in Leopardi emerge la necessità di una nuova sensibilità dell’uomo di fronte alla natura. Identificata, però, come nemica comune contro cui gli uomini devono difendersi, negli ultimi componimenti: eppure, altrove, lo stesso Leopardi aveva riconosciuto che la natura, lungi dall’esser ostile, è indifferente alle nostre sorti. Siamo però noi - è questa la tematica del nostro secolo - a non poter essere indifferenti alle sorti della natura; non si può più – ed è lo scarto della coscienza tra Leopardi e noi – considerare dualistico il rapporto Uomo-Natura; non si può più parlare di Umanità, né di Ambiente, ma di Terra, dell’oikos che tutto comprende, le mura, così come chi vi abita, a qualsiasi piano. Ecologia, come superamento dell’Antropocentrismo, del culto del progresso come affermazione dell’utile, ma anche di certo Ambientalismo sterile; come culto, ricerca dell’armonia tra viventi e terra, tra uomo e natura.

Un’armonia che non potrà far a meno delle conoscenze che la scienza ci ha dato, e dunque non potrà essere un ritorno al passato, o a pratiche aborigene: abbiamo il dovere di essere realisti, per incidere sulla realtà.
Un’armonia nuova, tutta da inventare: partendo da questi tragici avvenimenti, per capire, finalmente, che qualcosa si è rotto, e non si potrà tornare indietro: che i rapporti di forza su cui abbiamo costruito il nostro “progresso” portano ad un binario senza destinazione.

Malthos, EF! Roma