giovedì 17 settembre 2009

Abbiamo le prove...

Per la prima volta in vent’anni, il ritrovamento di una delle “navi fantasma” che hanno avvelenato il Mediterraneo.

«Basta essere furbi, aspettare delle giornate di mare giusto, e chi vuoi che se ne accorga?» «E il mare? Che ne sarà del mare della zona se l' ammorbiamo?» «Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi che con quelli, il mare andiamo a trovarcelo da un' altra parte...».
Lo sapevamo. E adesso, finalmente, dopo vent’anni e più, abbiamo le prove.
Quando, il 12 settembre scorso, il manifesto schiaffa in prima pagina l’oramai imminente ritrovamento della Cunski, il pensiero vola a Pasolini, alla sua denuncia disperata: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.”
E gli indizi, in cinque mesi di indagini che hanno finalmente dissepolto dal Mare Nostrum la Cunski, se li è costruiti uno per uno, senza cedere, come dichiara orgoglioso, alla tentazione di seguire “teoremi”, il Procuratore Capo di Paola, Bruno Giordano. “La giornata di oggi – dichiara a Repubblica - ha assicurato una svolta determinante nelle indagini. Per la prima volta è stata individuata una delle navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi segnalate da molte denunce. Con questo ritrovamento comincia a squarciarsi il velo che finora ci aveva impedito di andare a fondo in questa vicenda.”
“A chi compete fare questi nomi? - si chiedeva P.P.P. - Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.”
E dopo anni di intellettuali coraggiosi, di militanti sinceri e appassionati, travolti e umiliati da apparati dello Stato fedeli e asserviti al potere (Magistratura inclusa), la novità in questo paese è che, nel vuoto politico e culturale più assoluto, c’è chi nelle Procure riapre vecchi faldoni e, in autonomia e in silenzio, lavora per restituirci pezzi di verità e della nostra storia. Nomi. Rivelati nel 2006 dal pentito di mafia Francesco Fonti.
La storia delle “navi fantasma” inizia negli anni ’80: un elenco di affondamenti volontari, di navi scomparse senza lanciare richieste d’aiuto, talvolta senza nemmeno pretendere i ricchi rimborsi assicurativi dai Lloyd londinesi. Una serie infinita: nel 1985 sparisce la motonave Nikos I, diretta in Togo, probabilmente tra Libano e Grecia. Sempre nel 1985 s' inabissa a largo di Ustica la nave tedesca Koraline. Nel 1986 è il turno della Mikigan, affondata nel Tirreno Calabrese. Nel 1987 a 20 miglia da Capo Spartivento, in Calabria, naufraga la Rigel. Nel 1989 la motonave maltese Anni affonda a largo di Ravenna in acque internazionali. Nel 1990 è il turno della Jolly Rosso a spiaggiarsi lungo la costa tirrenica in provincia di Cosenza.
Storia, quella della Jolly Rosso, tristemente famosa, che costò la vita al coraggioso capitano di corvetta Natale De Grazia, la cui morte, nel corso delle indagini, è ancora avvolta nel mistero. Tutt’ora, dopo quasi vent’anni, nella zona di Amantea, già perla del Tirreno calabrese, si registrano temperature a livello del suolo più alte anche di sei gradi, macchie rosse rilevabili dai satelliti, radioattività alle stelle ed un’incidenza di tumori spaventosa (“un altro paziente da Amantea", vociferano ad ogni ricovero gli infermieri dell’ospedale di Cosenza.)
Tornando alla Cunski, era, come ricostruisce il manifesto, una nave da cargo registrata nel 1956. Da allora ha cambiato nome quattro volte: è uscita dai cantieri come Lottinge, nel 1974 diventa Samantha M., nel 1975 Cunski e poco prima di affondare - nel 1991 - viene rinominata Shahinaz.
Sul registro navale la "Lottinge-Samantha-Cunski-Shahinaz" risulta rottamata sulla spiaggia di Alang, in India, nel 1992. Alang è un gigantesco cimitero di navi cargo, dove centinaia di uomini, donne e bambini smontano con mezzi di fortuna i relitti portati qui dagli armatori. Impossibile, cioè, avere un riscontro certo dell'avvenuto smantellamento, a parte i supporti solo cartacei.
La pratica delle navi dei veleni inizia a venire a galla sul finire degli anni ’80, quando erano numerose le imbarcazioni che dall’Italia si dirigevano verso le coste dell’Africa o dell’America Latina, per sversare a basso costo i rifiuti pericolosi delle fabbriche del nord Italia in paesi privi di controlli o in mano alla corruzione.

È bene sottolineare, ogni volta che si può, che i rifiuti che attanagliano il meridione - dalle coste calabresi agli allevamenti campani - non sono solo imputabili (come fanno gli Sceriffi della Lega) alla sola mala gestione degli amministratori: sono il risultato di un modello di “sviluppo” che scarica i costi dei miracoli economici su chi, di quei miracoli, non avrà che l’eco dalla tivvù. Su queste pratiche criminali si son costruiti imperi e fortune, grazie alla ‘ndrangheta e alla camorra il Made in Italy ha retto la concorrenza del sud-est asiatico. Del resto, il rapporto tra “Padania” e “Terronia” è tristemente esemplificativo di un più generale rapporto tra Nord e Sud del mondo. Basti pensare alla vicenda di Ilaria Alpi, che seguendo le tracce radioattive della ‘ndrangheta era arrivata in Somalia..
Ma nel 1988 si accendono i riflettori sul Libano: al governo italiano vengono rimpallate tonnellate di pesticidi, esplosivi, solventi, farmaci scaduti e metalli pesanti (quantificati in 15.800 barili e 20 container), trasportati fin lì dalla Jelly Wax, società del Milanese, specializzata nel settore – in cui si segnalavano, del resto, “star” come la Ocean Disposal Management di Giorgio Comerio, che offriva su internet la sepoltura in mare dei rifiuti radioattivi, ottenuta mediante “siluri” che s’inabissavano negli strati argillosi dei fondali ad una profondità di circa cinquanta metri. Pretendendo di aggirare così la Convenzione di Londra, che vietava lo sversamento “in” mare, e non “sotto” il mare..
Le autorità libanesi costrinsero l’Italia a farsi carico dei suoi rifiuti, complice l’indignazione internazionale. Dopo pochi giorni attracca – rivelano alcuni degli esperti inviati dall’Italia per risolvere la spinosa questione - nel porto di Beirut il mercantile Cunski, con a bordo materiali e attrezzature per la bonifica.
Nel recupero, però, risultarono coinvolte anche altre navi, secondo gli studi effettuati da Greenpeace: la suddetta Jolly Rosso e le altre due navi citate dal collaboratore Francesco Fonti, la Voriais Sporadais e la Yvonne. Tuttora dormienti, col loro carico di veleni, omertà e connivenze.

Maltos – EF! Roma